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Morte del sé altrui

  • Immagine del redattore: Carlo Passoni
    Carlo Passoni
  • 3 ott 2024
  • Tempo di lettura: 4 min

Abbiamo capito che il nostro essere è costantemente, dinamicamente e fluidamente intercambiabile. Quello che siamo con una persona, potremmo non esserlo con un’altra. La sinergia che si crea con individui (o gruppi) affini ci porta a essere in maniera differente rispetto al solito.


Quante volte ci capita di dire: "Con lui mi sento una persona diversa", "Lei mi fa sentire vivo", "Con loro ritrovo una parte di me che avevo dimenticato"? Questi esempi svelano un aspetto importante: il nostro sé è fortemente influenzato dall’altro. La persona con cui entriamo in sintonia diventa, in un certo senso, il riflesso di una parte di noi, o meglio, tira fuori un lato del nostro essere che senza di lei non si manifesterebbe.


La nostra identità è fatta di pezzi che si legano agli altri. Non siamo mai davvero noi stessi, nel senso puro e immutabile che amiamo immaginare.

Dipendiamo dagli altri per una parte di ciò che siamo, ma questo non ci rende deboli, né totalmente dipendenti. Esistiamo nel mondo attraverso le relazioni, e non possiamo separarci da questa condizione.


Tuttavia, per quanto l’interazione con gli altri influenzi chi siamo in quel momento, esiste una linea di coerenza logica che guida e preserva l'integrità del nostro sé. Questa coerenza non riguarda tanto l'essere sempre la stessa versione, ma piuttosto il mantenere un nucleo identitario che ci permette di navigare tra diverse versioni di noi stessi senza smarrirci.

Il rischio dello smarrimento emerge solo quando si perde la continuità logica tra il sé individuale e quello collettivo. Se il cambiamento è così drastico e frequente da non lasciare traccia di ciò che eravamo, allora sì, si rischia di dissolvere la propria identità in frammenti senza alcuna direzione.


Il sé collettivo, quindi, non va visto come una minaccia alla nostra autenticità, ma piuttosto come un riflesso potenziato e temporaneo di chi siamo. Ogni relazione, ogni contesto sociale, aggiunge o sottrae qualcosa, e quel sé collettivo esiste in parallelo al nostro sé individuale. Non lo sostituisce, non lo cancella, ma si affianca ad esso, ampliandone la percezione.


Quando una persona esce dalla nostra vita, quel particolare sé che esisteva in relazione a lei potrebbe non manifestarsi più nella nostra quotidianità, ma non è del tutto perso. La memoria, infatti, diventa una sorta di archivio emotivo e psicologico, dove quelle versioni di noi stessi rimangono custodite, anche se non più attivamente utilizzate.



Morte del sé altrui


Possiamo pensare alla memoria come a una sorta di "zona di conservazione" del sé, un luogo in cui i frammenti del nostro passato continuano a esistere. Questi frammenti non influenzano più il presente in modo diretto, ma possono essere rievocati in momenti di riflessione, nostalgia o semplicemente attraverso l'incontro con qualcosa o qualcuno che ci ricorda quel passato. In un certo senso, il sé che abbiamo smarrito in una relazione passata non è morto, ma è stato archiviato, e il suo ricordo può ancora avere una certa rilevanza nel nostro presente.


Ad esempio: immaginate di camminare per strada e di incrociare qualcuno che non vedevi dai tempi del liceo. Nonostante gli anni trascorsi, durante l'interazione potresti notare una strana sensazione: senza nemmeno rendertene conto, il tuo atteggiamento, il tono di voce, forse persino il tuo modo di scherzare o di esprimerti, sembra tornare quello che avevi a quei tempi. Come se, in presenza di quella persona, si riattivasse una versione passata del tuo sé, che esisteva solo in relazione a quel particolare contesto e a quella relazione specifica.

Questo accade perché il tuo sé, durante gli anni di scuola, era modellato in parte dalle interazioni con quella persona, dalle dinamiche del gruppo e dall’ambiente che vi circondava. Nel momento in cui rivedi quel compagno, anche se oggi sei una persona diversa, la memoria riporta alla superficie quella vecchia identità che avevi allora, un’identità legata a quella relazione. È un processo inconscio, quasi automatico, come se la tua mente cercasse di riconnettersi a un modo di essere familiare in presenza di quell’individuo.

Questa "riattivazione temporanea" può farti percepire, anche solo per un breve momento, come se fossi tornato indietro nel tempo. Non è un vero e proprio regresso, ma piuttosto una sorta di richiamo momentaneo di una versione passata di te stesso, che viveva in quel contesto specifico. Ciò accade perché la memoria non è solo un archivio statico, ma un meccanismo che, in presenza di determinati stimoli – in questo caso la presenza di qualcuno del passato – può richiamare il sé che era attivo in quel periodo.




Quando le persone che hanno contribuito a definirci non ci sono più, quel sé che esisteva solo in relazione a loro non tornerà in altre relazioni. È scomparso con loro, perché esisteva esclusivamente in quel rapporto specifico. Ogni frammento di noi, legato a una particolare interazione o dinamica, non può sopravvivere autonomamente: vive e si spegne insieme a chi lo ha fatto emergere. Quando perdiamo qualcuno di caro, perdiamo anche una parte di noi stessi. Restano i ricordi, ma non potremmo mai replicare ciò che eravamo con quella persona.



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