L'apparenza inganna
- Carlo Passoni
- 27 apr
- Tempo di lettura: 4 min
Dal bello ci si aspetta il buono, e dal buono il bello; dal brutto ci si aspetta il cattivo, e dal cattivo il brutto.
È come se la nostra mente facesse automaticamente questo abbinamento: dalla bellezza ci aspettiamo positività, e dalla positività ci aspettiamo bellezza; dalla bruttezza, invece, ci aspettiamo negatività, e dalla negatività, bruttezza. (E per bruttezza intendo ciò che non segue la media dei canoni estetici standard.)
Ma perché tutto questo?
Perché ci siamo evoluti così.
All’inizio della nostra storia, la bellezza era un segnale diretto di salute: un aspetto gradevole indicava forza fisica, assenza di malattie, buone probabilità di sopravvivenza e, di conseguenza, buone possibilità di successo riproduttivo. La bellezza era vitale.
La "bruttezza", al contrario, poteva derivare da patologie, infezioni o difetti genetici: segnali inconsci che qualcosa, a livello biologico, non andava come doveva.
Nel corso dell'evoluzione della società, si aggiungeva anche un altro fattore: lo stile di vita.
Essere in salute e avere un aspetto curato non dipendeva soltanto dalla genetica, ma anche dalle condizioni economiche e sociali.
Chi apparteneva a classi agiate viveva meglio, si nutriva meglio, si curava meglio — e questo si rifletteva anche esteriormente.
Al contrario, chi era povero, vivendo in condizioni precarie, con scarsa igiene e poco accesso alle cure, era più soggetto a malattie che, oltre a compromettere la salute, lasciavano anche segni visibili sul corpo.
E da lì, inevitabilmente, l'aspetto fisico ed estetico diventava uno status symbol.
Ma attenzione: i canoni estetici non sono mai stati universali o fissi.
Sono sempre stati figli del loro tempo, plasmati dalle circostanze e dalla cultura popolare.
Ad esempio, in certi periodi storici, avere la pelle chiara era un segno di privilegio: voleva dire che non eri costretto a lavorare sotto il sole, nei campi.
In altri momenti, come nella società moderna, l’abbronzatura è diventata il contrario: simbolo di chi può permettersi di viaggiare, andare in vacanza, godersi il tempo libero.
Oppure la robustezza: in epoche di carestia, un corpo più grasso era sinonimo di benessere; in tempi di abbondanza, è diventato invece indice di trascuratezza.
In pratica, il corpo è sempre stato una specie di manifesto sociale: raccontava chi eri, cosa potevi permetterti e quanto valevi agli occhi degli altri.

E qui si inserisce un altro pezzo importante del puzzle.
Per via di cause strutturalmente sociali (e non biologiche sottolineo), le fasce più emarginate e disperate della popolazione, erano statisticamente più propense a compiere crimini.
Da qui nacque, poco a poco, l'associazione tra "brutto" e "cattivo" contrapposti ai "belli" e quindi "buoni": un'etichettatura che si è poi radicata profondamente nell'immaginario collettivo, venendo continuamente replicata nel corso della storia nei racconti, nelle favole, nell’arte, nella religione, nei film...
Il malvagio ha cicatrici, occhiaia, denti storti; il buono ha la pelle liscia, i lineamenti armoniosi, il sorriso perfetto. La strega è vecchia e rugosa, la principessa è giovane e splendente.
È da qui che nascono gli archetipi, ed è da qui che cominciano i nostri bias culturali.
Un meccanismo che rende ancora più insidioso questo schema è quello conosciuto come Halo Effect, effetto alone: un bias cognitivo che ci porta a estendere una singola caratteristica — come la bellezza — a tutte le altre qualità di una persona. Se una persona ci appare esteticamente gradevole, a primo impatto tendiamo inconsciamente ad attribuirle anche altre caratteristiche, come ad esempio intelligenza, gentilezza, competenza, senza prove reali. Questa scorciatoia mentale, è ancora attiva oggi, influenzando giudizi, decisioni sociali e opportunità. Pensate ad esempio ad una persona vestita elegantemente, viene percepita come più competente e autorevole;
Un prodotto o un'app dal design accattivante ci appare automaticamente più affidabile e di qualità, anche se i contenuti possono essere mediocri.
Nelle relazioni, una persona particolarmente attraente riceve più tolleranza e comprensione, anche quando i suoi comportamenti non lo meriterebbero. Quindi per evitare di cadere in questi automatismi percettivi, propongo un semplice gioco mentale: provate a cambiare l'involucro. Provate a cambiare l'apparenza di quell'essenza.
Immaginate quella stessa persona, con le stesse qualità morali e caratteriali, ma con un aspetto estetico completamente diverso: la trattereste nello stesso modo? Le concedereste ancora la stessa fiducia?
Oppure quel prodotto che tanto vi entusiasma: senza quel design curato, il suo contenuto, quello di cui essenzialmente usufruite, è ancora così valido, o è solo impacchettato meglio?
E infine, la persona vestita in modo impeccabile: se indossasse abiti trasandati, ascoltereste ancora con la stessa attenzione ciò che dice?
Non è così raro che le persone alterino la percezione degli altri per farla combaciare con l'archetipo o l'etichetta culturale che hanno in testa.
Quante volte, nella vita, capita di dire: "non me ne ero reso conto", oppure "sembrava diverso"?
Alla fine, non è che mancavano i segnali: siamo stati noi a distorcere quello che vedevamo, mettendo inconsapevolmente un filtro tra noi e la realtà.
Un filtro costruito dalle nostre aspettative, dai nostri pregiudizi, da quello che volevamo vedere più che da quello che effettivamente era.
Ed è proprio questo il punto più insidioso: non giudichiamo l’essenza, giudichiamo quanto l’apparenza corrisponde ai modelli mentali che abbiamo già dentro.
E rispetto al passato, la dinamica oggi si è resa più complessa: non esiste più un solo archetipo dominante, ma una vasta varietà di etichette, modelli e concezioni. Oggi, la bellezza non è sempre associata automaticamente alla bontà o all'intelligenza; in alcuni contesti culturali o sociali, può essere collegata a superficialità, vanità, ingenuità. Allo stesso modo, la mancanza di conformità ai canoni estetici può essere interpretata come segno di profondità, autenticà o persino genialità. Tutto questo va ben oltre il concetto di bellezza, perché rappresenta il difetto umano di come percepiamo il prossimo, in base all'apparenza.
Il giudizio estetico, quindi, non si è estinto: si è moltiplicato. La società contemporanea dispone di più archetipi, più chiavi di lettura estetica, rendendo la relazione tra aspetto e valore più variegata, ma anche più ambigua. Quindi fate attenzione a ciò che vedete, perché è da qui che nasce il detto: "l'apparenza inganna" . Ma a questo giro però, nonostante ci sia ancora molto su cui lavorare, e siano nati nuovi sofisticati dilemmi sui canoni estetici, non posso esimermi nel fare un plauso alla mia generazione, che è riuscita a migliorare in modo sostanziale, rispetto al passato, il peso dei pregiudizi estetici, etnici, di genere, e così via. Abbiamo iniziato a scardinare standard imposti e ad ampliare l'accettazione sociale verso ciò che è diverso, perché questa è la chiave, non dobbiamo rispettare o accettare il prossimo poiché uguale, perché noi non siamo uguali. Bisogna rispettare ed accettare il prossimo poiché diverso, perché tutti siamo diversi.
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